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Salviamo il TPL veneziano.

C’era una volta il trasporto pubblico a Venezia, pubblico perché ne potevano usufruire tutti, da Pellestrina a Favaro, da Burano a Malcontenta, per spostarsi liberamente nella città d’acqua, recarsi nel continente e viceversa, e siccome dai tempi in cui Ponzio Pilato amministrava la Giudea nessuno è più riuscito a camminare sull’acqua (e neanche il Covid-19 sembra al momento agevolarci in questa impresa biblica), inevitabilmente per gli sventurati isolani e pendolari della terraferma quel servizio risultava vitale. Vitale per godere appieno della bellezza di uno stile di vita unico, limitando, per quanto possibile, i disagi che l’unicità porta inevitabilmente con sè.


Un servizio pubblico reso ancora più particolare dal fatto che, grazie ai sacrifici dei lavoratori, a volte incompresi, a volte bistrattati, si era pure riusciti a rendere economicamente sostenibile! Lavoratori che in questo momento di grande sacrificio economico chiedono rispetto (e non pubblicità di servizi esterni). Ma ci pensate? Un servizio pubblico che riusciva ad aiutare economicamente altre realtà comunali! Chi riuscirà in futuro a fare altrettanto, cioè a prendere risorse e a ridarle alla collettività?


Venezia, incarnando alla perfezione il trend italiano, non è più una città di giovanotti, anzi, “i sbarbai” hanno fatto il ‘68 e ogni singolo ponte risulta un ostacolo davvero ostico se non insuperabile per molti abitanti, che siano a mani libere o “carrello” muniti.

Così come gli alti Monti che circondano le valli alpine fino a qualche anno fa isolavano (anche geneticamente) le popolazioni di una vallata dai corrispettivi della valle a fianco, così nella Venezia ai tempi del covid ogni anziano si vede relegato nella propria isola, impossibilitato a fare quei ponti che gli precludono la riva di fronte, che spesso vuol dire la spesa al supermarket più economico, la parola con l’amico (naturalmente con mascherina), la visita all’ospedale: vuol dire la libertà.


Ma non ci sono solo anziani, ci sono gruppi di ragazzi, gente che lavora, che prova a rilanciarsi, gente che vuole tornare alla normalità, non alla “nuova normalità”, e che vede fortemente ostacolato il proprio diritto a spostarsi liberamente.


Venezia e i veneziani non hanno bisogno di monopattini, così come il popolo francese non aveva bisogno di Brioche per sopperire alla mancanza di pane, Venezia ha bisogno di mezzi pubblici, ha bisogno di sapere che ci sarà un battello pronto a portarlo all’altra riva e un autobus per la terraferma, a una tariffa equa mensile, con orari certi, come è sempre stato, perché non può essere che quell’acqua che ci salvò prima dagli unni e dopo dai longobardi divenga oggi una prigione senza mura.


Cari amministratori, non voglio credere che siate così ciechi da applicare i modelli delle città di terraferma ad una città che è il fiore all’occhiello della regione che tanto amate, mettetevi la mano sul cuore, Venezia non si merita questo trattamento, Venezia è un gioiello e i gioielli meritano un occhio di riguardo; caro governo, non trasformate la nostra gloriosa città in un vuoto simulacro, rendendoci ancora più difficile vivere in questo posto; non ci sono monopattini, mezzi privati, taxi, bici elettriche o chissà che altre brillanti soluzioni (brillanti magari per Copenaghen o Amsterdam) che possano sostituire ciò che i battelli del servizio pubblico di linea sono e significano per Venezia; il termine isolati deriva da isola, e nella laguna veneta, pensate un po’, era avvenuto un miracolo: si era riusciti a far sentire l’isolano non isolato, ma connesso all’interno di questo meraviglioso ecosistema in cui la terra si abbraccia col mare.


Marco Ravanello.

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