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Per Venezia il Recovery non sia uno svuotacassetti ma il disegno di una nuova traiettoria urbana

di Franco Migliorini


La rivelazione del Recovery plan veneziano, strappato a colpi di accesso agli atti alla segreteria del sindaco, aggiunge una tessera alla traiettoria del declino della città. Per ora espresso solo nelle intenzioni, ma non per questo meno significativa.


Con 3,8 miliardi di opere pubbliche di edilizia, infrastrutture a rete, banchine, fino alla cittadella dello sport e altro ancora, Brugnaro ripropone la piattaforma elettorale con cui ha appena ottenuto il rinnovo del suo mandato. La cosa in sé non stupisce ma conferma la idea di città che la sua giunta intende proporre ai veneziani, ai veneti e al mondo.


Nella sua lunga transizione dall’economia industriale a quella post industriale Venezia ha accentuato la differenza della sua traiettoria urbana da quella delle altre città venete. Quella più rilevante sta nello sviluppo delle attività di servizio, che nelle città venete sono in tanta parte rivolte all’hinterland industriale dei rispettivi territori, mentre a Venezia sono per la maggior parte rivolte al turismo. Quello urbano e quello provinciale. Cioè la domanda esterna.


La sostanziale differenza sta nella qualità degli addetti ai servizi, che per il turismo è mediamente bassa o molto bassa, mentre nei servizi all’industria richiede crescenti e qualificate specializzazioni tecniche e amministrative.


Due sono di fatto le principali attività di servizio che Venezia rende alla regione nel suo insieme. Il Porto e l’Aeroporto. Qualcosa che serve tanto l’industria che il turismo, in quanto infrastrutture uniche in regione, cui però si annette un modesto peso della logistica merci, molto più sviluppata a Padova e a Verona. Entrambe province industriali. Non è invece un caso se l’aeroporto e parti importanti del porto siano ora gestite da società straniere che intendono dettare l’organizzazione stessa del territorio comunale secondo la propria visione del business settoriale.


Per il resto la crescita del turismo urbano, divenuta monocultura egemone nella città “fabbrica del turismo”, ha esasperato tutti gli aspetti della rendita di posizione radicandola nell’uso degli immobili, ricettivi residenziali e commerciali. Questi aumentano il loro valore in proporzione alla crescita della domanda turistica fino a confliggere con, e sconfiggere le, attività più tradizionali, residenza commercio e artigianato di servizio alla residenza. E la qualità stessa del vivere urbano.


La crescita di peso del settore immobiliare, esteso anche alla terraferma, di per sé è normalmente indizio di vivacità dell’economia urbana, salvo il fatto che la assoluta dipendenza da una sola domanda, quella turistica tutta esterna, la espone al rischio di default nel caso di crollo di quella domanda. Una fattispecie particolare del noto effetto “one company town”, come puntualmente accaduto con la desertificazione dell’economia turistica indotta dalla pandemia.

Quello stesso peso del turismo cha zavorra anche le previsioni di ripresa economica dei paesi turistici sud europei come Spagna, Francia, Grecia, e Italia.


L’effetto congiunto della pressione immobiliare, unita alla bassa qualità della domanda di lavoro nei servizi urbani, incide così sulla traiettoria del declino veneziano con la perdita di popolazione istruita, soprattutto giovanile che, oltre al lavoro, non riesce a trovare nemmeno l’alloggio. E se ne va altrove. Una spirale destinata ad avvitarsi sempre più deprimendo la struttura sociale della intera città.

Ma la parte di città che percepisce il problema si pone il quesito del che fare per innestare una inversione di tendenza?


Ambiente, cultura, vivibilità sono gli aspetti che caratterizzano la qualità urbana di Venezia, ma di per sé non bastano affatto a imprimere alcuna svolta. Università, musei, fondazioni e istituzioni variamente attive nei servizi specializzati possiedono certamente qualità distintive, ma operano settorialmente dentro le loro reti di relazioni internazionali, con limitate reciproche interazioni locali. Cioè non producono massa critica.


In assenza di una progettualità che riunisca le eccellenze ambientali della città con i saperi distintivi locali, umanistici e scientifici, servirebbe dunque l’impulso verso un nuovo orizzonte decisamente orientato verso l’economia della conoscenza. Una sfida per il sistema locale a misurare la sua capacità di interagire attivamente coi processi innovativi che regolano le gerarchie economiche e culturali dell’epoca attuale.


Una sfida che riguarda molte città ma, nel caso di Venezia, assume un peso particolare perché un nuovo orizzonte “progettuale” richiede due condizioni. Una chiara propensione politico amministrativa a favorire l’ingresso in città di nuove forme di economia, e ad ospitare i relativi addetti, e una mobilitazione di tutte le istituzioni locali di maggior prestigio a mettere le proprie specializzazioni in sintonia con un comune indirizzo di tipo imprenditoriale.

Il sostegno economico dell’Europa alla uscita dalla crisi economica e pandemica offrirebbe oggi l’opportunità di prospettare nuovi scenari alla traiettoria urbana di Venezia, ma solo a condizione di una progettualità che non sia basata sul puro svuotamento dei vecchi cassetti.

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