Qualcuno comprende ora il rischio annesso alla monocultura turistica di un’intera città e non di un villaggio costiero?
L’aqua granda e il coronavirus, l’accoppiata che ha messo in ginocchio Venezia dopo annate di over-turismo da record crescenti, sostenuti ventre a terra da cinque anni di amministrazione che ha ignorato qualsiasi altra politica urbana, ora mostrano l’altra faccia del turismo. Quella della volatilità della domanda.
Sicurezza e paura sono parte integrante dell’economia turistica internazionale, tanto più se organizzata su base industriale ad alto tasso di investimenti, come nella nostra era globale, cui si lega quindi un alto tasso di rischio. Esattamente ciò che accade ora a Venezia.
La monocultura rende indifesi di fronte a eventi imprevisti ma non per questo impossibili.
Fanno tenerezza, per non dire compassione, i patetici tentativi dell’amministrazione di imbonire l’opinione mondiale con messaggi e filmati rassicuranti sulla praticabilità della città. Il mercato internazionale non si fa abbindolare con slogan elettorali di periferia.
Il turismo è una libera opzione prodotta dal benessere, non una necessità di vita. Può essere soddisfatto in modi diversi e in luoghi diversi, da cui l’estrema volatilità. Somiglia al piacere immateriale della musica che vive nel momento in cui viene prodotta, certo con la tecnologia se ne può conservare il ricordo con immagini e suoni, ma a differenza di altri prodotti industriali, come l’auto, non è cumulabile nei magazzini della sovra produzione.
Ad una stagione infausta prima o poi si porrà rimedio, ma è alla cabala che si affidano le sorti di una città come Venezia? Per chi la considera solo una merce sul mercato certamente sì, ma per chi la vive, la ama e la rispetta senza bisogno di slogan non è affatto così.
Il turismo a Venezia ci sarà sempre, ma la città, per essere attrattiva e unica nella economia contemporanea, ha bisogno di nuove idee e di altri protagonisti.
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