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Venezia e il mare.

Un fatto è certo. Il livello marino sta crescendo a ritmi superiori alle previsioni di qualche decennio orsono. L’epoca in cui il Mose fu concepito senza più porsi il problema di monitorare quello che doveva essere l’input primario di una opera faraonica concepita per stupire il mondo e rivelatasi quello che oggi nessuno può negare. Uno scandalo politico economico dietro cui si cela il fallimento di una intera operazione costata finora 5,5 miliardi pubblici che non si sa se riuscirà mai ad entrare in funzione ma che sicuramente non risolverà il problema per il quale è stato concepito.

Si, perché quando si dice Mose si pensa Venezia, ma dentro la laguna c’è anche Porto Marghera coi suoi approdi per le navi commerciali e industriali che contribuiscono in modo determinante alla economia veneziana e veneta in termini di lavoro e di Pil. Si parla in sostanza del futuro del porto di Venezia e del suo ruolo nella portualità in alto Adriatico.

L’anomalia del porto lagunare, unico al mondo, sta nel fatto che l’adeguamento alla stazza crescente delle moderne navi oggi pone un limite assoluto di pescaggio: i dodici metri dell’anello sommerso di cemento del Mose in bocca di porto. E la continua necessità di scavare il canale dei Petroli soggetto a continui smottamenti prodotti dalle navi sugli storici sedimenti che costituiscono la morfologia lagunare. Da cui la disputa infinita tra tutela strategica della laguna e difesa urgente dell’attività portuale.

Visione di breve contro visione di lungo. Economia contro ambiente. Su questo si scontra ogni discussione in città. Si finge così di ignorare che la questione fu chiaramente posta dagli esperti olandesi di Delft quarant’anni orsono, quando il Mose emetteva i primi vagiti. Il porto va trasferito in mare come a Rotterdam, avevano detto. E oggi la questione rivela tutta la sua drammatica attualità. Il rischio è non tanto il crollo ma il lento declino di una attività che per definizione è legata alla economia mondiale del mare, su cui l’ingresso della Cina ha impresso un salto di scala.

Questo è un problema veneziano e veneto, oltre che nazionale. Come affrontarlo? Occorre ripensare la funzione portuale veneziana nel nuovo contesto ponendo con chiarezza il tema. Il porto di Venezia dispone oggi di un piano regolatore del 1965, oltre mezzo secolo or sono. E’ una visione che suggerisce solo forzosi aggiustamenti quando servirebbe l’energia, politica e intellettuale, di disegnare uno scenario per il futuro.

Da anni ormai è stata assegnata la gara per la elaborazione di un nuovo piano portuale, ma da allora nulla si è saputo e il silenzio è calato. Non solo sul piano ma sulla discussione che riguarda il futuro, mentre di querelle quotidiane è piena la cronaca. Come la più recente rivendicazione del sindaco di avocare a sé tutte le competenze sulle acque lagunari, urbane e marittime, e la parallela presidenza del Magistrato alle acque, entrambi da sommare con la città metropolitana. In pratica una moderna città stato su misura del nostro sindaco pro tempore. Uomo solo al comando.

Diciamo allora con chiarezza. Mai il governo delle acque in mano alla politica che procede per scenari quinquennali e interessi contingenti. La Serenissima pensava all’acqua con respiro secolare ed è quello che anche oggi serve, sia che si tratti di mare che di fiumi.

Venezia esiste perché frutto di quella visione. Oggi la città è chiamata a trovare la forza di riprendere in mano la storia da cui proviene.

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